22 luglio 2018

Devotion di Patti Smith: perché scrive, spiegato da come scrive.


Qualche settimana fa, stavo per prendere un aereo e mentre facevo a mente la lista di tutte le cose che erano nel mio bagaglio e che avrei dovuto portare, mi sono accorta di non aver preso nessun libro da leggere.
Nessuno dei libri che mi guardano dalla pila sul comodino ogni sera, proprio stavolta che le ore di viaggio mi avrebbero garantito un po' di tranquillità.
Non mi piace. Decido di rimediare comprandone un altro. Sicuramente il caso mi porterà alla lettura giusta per questo viaggio. Faccio quindi una breve sosta in libreria, ma c'è un problema: io sono una di quelle che viaggia low-cost con un piccolo bagaglio a mano, ed è tutto già maledettamente pieno.
Quindi mi propongo di fare un giro tra gli scaffali con il poco nobile scopo di trovare un libro piccolo. Piccolo di formato, breve di pagine. Ah e poi lo voglio bello, interessante, breve ma denso così nel caso lo rileggo due volte e sono contenta lo stesso.
Non è facile e io ho fretta. Mi vengono in mente due alternative: poesia o racconto di viaggio. Dovrei cavarmela. Che se sbaglio romanzo invece poi ci rimango male.

E poi c'è lei.
Patti Smith, una delle donne che mi ispirano più al mondo, che ha scritto questo volumetto dal titolo "Devotion", che vedo esposto su uno scaffale delle novità. Strano che mi sia sfuggito. Comunque è un piccolo cartonato. Ma è leggero, di piccolo formato, 130 pagine.
Lo prendo un'altra volta forse.

E invece no, lo prendo ora, perché il sottotitolo di "Devotion" è "Perché scrivo". E ti prego dimmelo perché scrivi, che io senza una motivazione non so stare al mondo. Magari la tua vale anche per me, o me la faccio andare bene. O la schifo così tanto che ne trovo una mia. Solo per il piacere di fare il contrario.

Insomma lo prendo, e scappo che ho fretta.
E poi sarebbe comunque finito nella mia libreria, nello scaffale di Patti, dove tengo i libri di Patti e di Robert (Mapplethorpe). Adoro (ne trovate di varie dentro questo blog).

Che poi Patti, io l'ho scoperta da adulta, peccato per il ritardo.
Amo come Patti Smith sa raccontarsi. Si racconta bene come fanno gli uomini. Credo.
Patti esprime liberamente il suo corpo e i suoi pensieri. Da quando è nata secondo me.
Ah! Voglio seguire la tua via.

A parte le divagazioni, ho scoperto che il libro che ho comprato era diverso da come me l'aspettavo. In modo positivo.

Ho letto vari libri sulla scrittura, è un genere che mi appassiona, e poi alla fine dei conti scrivo pure io tutto il giorno. Che poi scriviamo tutti tutto il giorno - alcuni più, alcuni meno -  tra e-mail, social network e chat (ok, salutiamo anche i messaggi vocali se no si offendono e baci alle emoticon).
Certo, è una scrittura meno nobile di quella che immaginavo da bambina, una cosa prêt-à-porter, una scrittura utile, una scrittura per farmi capire. Ma che si scrive a fare se non per comunicare qualcosa?

Comunque tornando a "Devotion", mi aspettavo un saggio breve e invece il volume è un breve memoir di un periodo particolare, un tour di presentazioni di Patti Smith in Francia, intervallato da racconto di pura fiction e una considerazione finale sul tema della scrittura.

La narrazione del vissuto del viaggio francese procede soffermandosi ogni tanto su oggetti, azioni, sensazioni, ricordi che influenzano l'autrice a vario titolo. Eccola qua l'ispirazione, eccolo qua l'ascolto. L'autrice è in ascolto, le cose che succedono la attraversano, mai incolume.

Il racconto che inizia vede seminati qua e là gli oggetti, le azioni, le sensazioni che abbiamo letto poco prima. Sono sotto i nostri occhi, se vogliamo coglierli. Ecco come scrive l'autrice, ecco come trasforma la vita in parola. Al di là del valore intrinseco di quel racconto, è uno spazio in cui riusciamo a cogliere come funziona la mente dell'autrice e come funziona la sua scrittura, il suo processo creativo.

Dopo quel racconto speravo proprio che Patti Smith tornasse da me, lettrice a dirmi: ecco come si scrive, ecco quello che funziona ed ecco quello che non funziona, ora analizziamo tutto.

E invece no, nella conclusione del libro si torna sulla domanda principale, quella del perché si scrive. E la risposta sta nello spazio tra il compito che ci siamo dati e il sogno che vorremmo realizzare.

Dalla lettura di questo libro ho capito due cose: che devo andare a Parigi, e che il motivo che la porta a scrivere vale anche per me.

17 novembre 2016

Prendiamoci un caffè su Mangialibri.com

Screenshot della pagina del sito



Spoiler Alert: Qui svelo il mio segreto. Perché i capelli rosa?

C'è un bel blog che si occupa di letteratura, Mangialibri.com, che tra le varie rubriche, recensioni delle opere e interviste agli autori, dedica spazio anche agli "addetti ai lavori" dell'editoria italiana, soprattutto quella indipendente.

Questo spazio si chiama Un caffè con... , quattro chiacchiere informali con direttori editoriali, redattori, traduttori e, cosa abbastanza inedita, responsabili e addetti uffici stampa.

Visto che il "dietro le quinte" dei vari mestieri è una cosa che incuriosisce un po' tutti, vi invito a sfogliare queste pagine. Sono tutti punti di vista molto interessanti, sia per i curiosi, sia per chi vorrebbe un giorno fare questo lavoro.

Anch'io ho risposto con piacere a qualche domanda che mi ha inviato la redazione a proposito del mio lavoro in BAO Publishing.

Questo il link dell'intervista:

Un caffè con... Daniela "Odri" Mazza

Ah, e si, mi hanno chiesto anche perché porto i capelli rosa. Nel link la risposta.



21 agosto 2016

6 lezioni pop di Robert Mapplethorpe (dal libro di Jack Fritscher)





Ho letto con grande interesse il libro di Jack Fritscher "Robert Mapplethorpe. Fotografia a mano armata", uscito quest'anno in libreria. Anno in cui ricorrono i 70 anni dalla nascita di Mapplethorpe (nato a New York il 4 novembre 1946) e che ha visto una bellissima e importante retrospettiva al Getty Museum e al LACMA di Los Angeles "Robert Mapplethorpe: The perfect medium"
e il documentario senza censure prodotto da HBO (spero di vederlo presto anche in Italia).

Il volume, più di trecento pagine, ben scritto, è un perfetto complemento biografico all'altra lettura per me imprescindibile sul tema dell'affascinante fotografo americano, lettura che mi ha appassionato tantissimo per vari mesi, ovvero il libro di Patti Smith "Just Kids" (ne ho parlato QUI).

Di fatto, si tratta del ritratto di un artista che si esprimeva attraverso la fotografia e che per tutta la vita ha lavorato sul binomio esplosivo di amore e morte. Fritscher stesso scrive:"Non mi interessano gli aspetti cronologici o la tecnica fotografica." Qui si parla infatti di ricordi molto personali di un amico, amante, e compagno di avventure professionali.
Eppure, c'è molto più del pettegolezzo del "chi andava a letto con chi" o del puro memoir. Il libro è un'emozionante cavalcata dentro un'epoca, e illustra una viva panoramica su tre decenni non solo di fotografia ma con lo sguardo che spazia dall'arte sull'intera industria culturale, tra mainstream e sottoculture metropolitane, analizzando l'opera di Mapplethorpe dal punto di vista di amico, amante, scrittore, editore e attivista del movimento gay americano.
C'è il rapporto di Mapplethorpe con la fotografia, con il sesso, la droga, con la cultura gay, con la cultura mainstrem etero, con la scena artistica di New York, la scena di San Francisco, l'abisso che ha diviso lo spirito degli anni Settanta pre-AIDS con quello degli anni Novanta Post-AIDS, passando per il decennio chiave degli anni Ottanta, la censura e tutto quel che ne comporta.
Il tutto attraverso interviste con chi Mapplethorpe l'ha conosciuto (nel bene e nel male), articoli usciti sulla stampa e memorie private, citando una marea di film, dischi e libri d'ispirazione.
Un racconto appassionato e ben documentato dal punto di vista del valore artistico dell'opera che Robert ha lasciato in eredità al mondo, partendo dall'assunto di base di Fritscher che "L'arte deve fare paura. Altrimenti è intrattenimento." 

Poi ci sono anche alcune foto. Le foto che altri fotografi hanno scattato a Mapplethorpe. Curiose, visto che parliamo di un artista che nell'autoritratto ha raccolto la summa dell'evoluzione della sua opera, una splendida parabola dal famoso scatto con frusta del 1978 all'ultimo nel 1988 con il bastone dal manico a forma di teschio.

Tra tutto l'intrigante materiale trattato nel libro (qualcuno forse potrà ancora divertirsi a scandalizzarsi sugli aneddoti di perversioni leather, sesso, droga e rock'n'roll) ho amato molto il racconto Fritscher sul modo in cui l'ambizioso Mapplethorpe ha messo deliziosamente in pratica almeno 6 lezioni della pop-Art, lezioni sempre comode per il giovane artista in cerca di successo:

1. Essere informati.
2. Moltiplicare.
3. Saccheggiare a piacere (la cultura).
4. Lavorare (molto).
5. Trasformarsi in un'azienda. 
6. Fare di se stessi un'opera d'arte. 


Come?


28 aprile 2016

Atelier

Non c'è molto da fare in un posto del genere, tranne quello che sei venuta/o a fare ovviamente. Si parla poco, solo il necessario.

Le stanze sono due, una principale, con un soffitto altissimo e il soppalco in legno. Al centro c'è la postazione della modella: un materasso, un drappo bianco di cotone, una scatola di legno, un paio di lampade da usare all'occorrenza e una piccola stufa elettrica.

Sulle pareti bianche ci sono alcune file di cavalletti di legno ripiegati e le tavole di legno, sul quale va sistemato il foglio da disegno, fissandolo con lo scotch di carta. Le tavole sono tutte macchiate di pittura, dagli studenti delle ore precedenti.
Noi usiamo quasi solo il carboncino. Alcuni osano i pastelli ad olio.

D'inverno fa molto freddo, bisogna riscaldare bene la stanza, altrimenti non è possibile lavorare con la modella. Alle volte, per sostituirla, usiamo un busto di gesso, di stile greco.
C'è un busto maschile e un busto femminile. Li usiamo entrambi, per studiare il gioco delle ombre. 

Le ore in un posto come questo sono brevi.
Gli occhi studiano a guardare, le mani a tracciare segni.
Tu ti illudi di rappresentare qualcosa che in realtà non cogli.


Febbraio II