Patti Smith & Robert Mapplethorpe, Coney Island boardwalk, Sept. 1, 1969 |
Serve. Sempre, anche quando vai a fare la spesa: serve una marcia in più, un po' di intuizione in più, di lungimiranza in più. E allora tocca tocca ispirarsi, cercare qualche strumento utile.
Di recente mi hanno ispirato in questo senso dei libri che hanno a che fare con la musica. Saggi, per la maggior parte, ma anche biografie, raccolte di interviste o cose così. Ti fanno entrare nella testa degli artisti o ti raccontano le vite incredibili, ti raccontano l'impossibile e tu (e io) stai lì a ravanare in mezzo a tutto questo materiale fighissimo cercando di capire cosa puoi cavarci.
A questo proposito (cioè di materiale fighissimo) non mi ha lasciato indifferente la notizia, abbastanza recente [11 agosto 2015], che Just Kids, il libro di Patti Smith nel quale racconta alcuni anni della sua giovinezza e l'incontro con il fotografo Robert Mapplethorpe - edito in Italia da Feltrinelli - diventerà presto una serie tv, di cui l'artista sarà co-autrice e co-produttrice. Ne ho letto i dettagli qui su Rolling Stone America e sull'Huffington Post (dove fanno un divertente toto-protagonisti).
Just Kids è stato l'unico libro che è riuscito ad incollarmi alle sue pagine per più di qualche mese nel corso di quest'anno. L'ho letto molto e spesso. Ne ho praticamente bevuto ogni parola, ogni lettera, cercando di assimilarne il più possibile. Ne ho comprate anche due copie [ok, questo per sbaglio].
Credo che abbia due grossi meriti.
Il primo:
farci conoscere tratti inediti e soprattutto inaspettati del percorso di crescita umana e artistica di Robert Mapplethorpe e di Patti Smith, due che a vent'anni non sapevano bene cosa volevano fare nella vita e alla fine si ritrovano a fare proprio quello che non era mai stato fatto prima, ognuno nel proprio campo, in un periodo di fermento artistico - tra l'altro - così mitizzato e celebrato come la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta.
Reciprocamente artista e musa, l'uno per l'altra.
Il secondo:
raccontarci, con un linguaggio semplice e diretto, una storia d'amore [e usando queste tre parole ho il terrore di banalizzare l'esperienza narrata in un'espressione trita e ri-trita] perfettamente godibile anche da chi non sa assolutamente nulla dei due protagonisti e neanche del clima culturale della NY di quel periodo e magari è vissuto fino ad oggi su un pero. Questa storia ti arriva lo stesso. Non devi saperne né di rock'n'roll né di fotografia, né del Chelsea Hotel né della Factory di Andy Warhol per godere appieno dello splendore e della purezza dell'amore raccontato in queste pagine, di due che si scelgono e scelgono di appartenersi per sempre, in un percorso totalmente fuori dai canoni e da ogni stereotipo di "coppia"[ho notato che alcuni preferiscono usare il termine"amicizia"per definire questo rapporto, ma Patty è molto chiara, parla di amore e basta].
Questo libro ha anche un grosso difetto però: ci svela che per scrivere un perfetto libro rock'n'roll - perché diciamocelo, il risultato è quello - non è detto che la formula magica sia il vecchio detto "sesso e droga e rock'n'roll". [A me ha fatto sorridere pensarci].
Qui ad esempio l'argomento principale della narrazione è l'esistere in forma d'arte. La poesia e l'amore. Il tono non è mai compiaciuto, non si fanno pettegolezzi. L'aveva ribadita questa attitudine Patti, anche in una delle interviste sul presunto sequel del libro [che in realtà sara M Train, in cui si racconta anche del matrimonio con Fred Smith degli MC5]: "I don't have a big rock 'n' roll lifestyle, a sex, drugs and rock 'n' roll story to tell. I think I have maybe a better story."
Ma l'arte di cui si tratta non è innocua. Anzi.
Robert Mapplethorpe, Untitled (invitation to Light Gallery opening), 1973 |
ROBERT MAPPLETHORPE E LA FOTOGRAFIA
"A me, in particolare, non piace la parola 'scioccante'. Io sto cercando l'inaspettato. Sto cercando cose mai viste prima... Ero nella posizione per scattare queste immagini. Mi sono sentito obbligato a farlo".
Il libro nasce come promessa a Robert. La parabola di Robert Mapplethorpe in questo libro ha un'inizio e una fine.
Nel mezzo comunque, c'è da dire che Mapplethorpe ha fatto in tempo ad assistere alla sua celebrazione con una stupenda retrospettiva al Whitney Museum of American Art di New York (una cosa che non capita proprio a tutti) nel 1988. C'è questa stupenda intervista del 1989 su Vanity Fair America realizzata per quell'occasione che è assolutamente da leggere.
Oggi il suo nome è riconosciuto in tutto il mondo come uno dei maestri della fotografia del novecento, le sue opere sono esposte ne maggiori musei del mondo [per saperne di più: http://www.mapplethorpe.org/].
Io mi sono innamorata del suo lavoro durante alcune ricerche per la mia tesi di laurea, nei primi anni Duemila, imbattendomi in un suo ritratto dell'artista Louise Bourgeois, non so se l'avete presente. Ho pensato che uno che scatta una foto così doveva essere un tipo divertente e che volevo saperne di più.
Poi a Milano nel 2012 ho visto una sua personale a Milano, nel catalogo Contrasto un'introduzione scritta da Alessandra Mauro e Alessia Tagliaventi seppe spiegarmi a parole quello che sentivo guardando quelle foto:
"Si attua così la magia della fotografia di Mapplethorpe: i soggetti fortemente sessuali e provocanti delle sue immagini vengono in qualche modo elevati alla purezza della forma, riuscendo però allo stesso tempo a conservare la loro carica sensuale e carnale. Ecco il bivio: le foto mantengono ed esibiscono tutta la loro significante ambiguità e ci spingono a riconsiderare il nostro concetto del lecito".
Non so come facesse, ma lo faceva benissimo.
Poi a Milano nel 2012 ho visto una sua personale a Milano, nel catalogo Contrasto un'introduzione scritta da Alessandra Mauro e Alessia Tagliaventi seppe spiegarmi a parole quello che sentivo guardando quelle foto:
"Si attua così la magia della fotografia di Mapplethorpe: i soggetti fortemente sessuali e provocanti delle sue immagini vengono in qualche modo elevati alla purezza della forma, riuscendo però allo stesso tempo a conservare la loro carica sensuale e carnale. Ecco il bivio: le foto mantengono ed esibiscono tutta la loro significante ambiguità e ci spingono a riconsiderare il nostro concetto del lecito".
Non so come facesse, ma lo faceva benissimo.
Patti Smith in Just Kids invece ne inizia a parlare così: [Robert da bambino] "Scoprì di possedere il talento per il disegno. Era un disegnatore nato e in segreto distorceva e astraeva le immagini, accorgendosi di come le proprie capacità migliorassero. Era un artista e lo sapeva. Non si trattava di un vezzo infantile. Si limitò a riconoscere ciò che era suo."
Da parte sua dice che "Robert non cercava redenzione. Si sforzava di vedere ciò che gli altri non vedevano, le proiezioni della sua immaginazione."
Controverso, raffinato, ambizioso: amava sbandierare che "Sympathy for the devil", dei Rolling Stones era la canzone della sua vita. Aveva raccolto l'eredità dei maestri Duchamp e Andy Warhol e voleva portarsi un passo più avanti.
Solo una piccola parte del libro parla dell'incontro di Robert con la fotografia. Quello è il momento della maturità, quando ormai aveva scoperto se stesso. In gran parte di queste pagine invece lo scopriamo dapprima come artista figurativo [Per avere un'idea di cosa facesse ho trovato un link interessante qui] e poi come artista alle prese con una lunga ricerca interiore che l'ha condotto ad affermare se stesso e la propria arte in tutto il mondo e a restare per sempre nella Storia.
E poi Robert è quello che ha ideato e scattato la foto per la copertina di Horses, è il primo che ha suggerito a Patti di cantare e nell'estate del 1978 - quando Because the night risuonava ovunque - era anche il ragazzo sfacciatamente orgoglioso del successo di lei, mentre affermava: "Patty, sei diventata famosa prima di me!"
Robert Mapplethorpe, Patti Smith’s Horses poster, 1975 ca. |
PATTI SMITH E LA SCRITTURA
"Perché non so scrivere qualcosa che possa risvegliare i morti?"
Diciamo che non parte facile. A diciannove anni, senza soldi, un problema abbastanza grande alle spalle, un futuro senza prospettive, si trova al cospetto di una statua di Giovanna d'Arco a promettere che avrebbe fatto qualcosa della sua vita.
Abbandona casa, città, famiglia, aggrappandosi "alla speranza di diventare un'artista"[figurativa prima, poi poetessa e scrittrice, solo infine performer] a New York. La madre le fa: "Come cameriera non ce la farai mai, ma io scommetto su di te in ogni caso." [Io questa l'ho già sentita...]
Patti non lo sa, non sa che sta partendo per diventare "la sacerdotessa del rock", non sa che "Horses", il suo album d'esordio sarà celebrato quarant'anni con un tour mondiale [in Italia l'abbiamo vista questa estate]. Però sente qualcosa.
"Nessuno mi stava aspettando. Ma mi aspettava ogni cosa."
Non si tratta di una passeggiata.
La solida base del suo percorso formativo sarà sempre la scrittura, che l'ha accompagnata fin da bambina. E l'esigenza fortissima di dare un senso all'esistenza. Di "fare qualcosa" di importante. A New York troverà tra i suoi maestri Allen Ginsberg, Gregory Corso e William Burroughs.
Incontrerà Jimi Hendrix, Janis Joplin, vedrà esibirsi Jim Morrison, i Velvet Underground, avrà compagni di viaggio come Tom Verlaine, e moltissimi altri grandissimi nomi, compreso uno speciale compagno d'avventura con il quale stringere un patto di stima e fiducia reciproca e inossidabile: Robert Mapplethorpe.
Da diciannovenne scappata di casa a commessa in libreria, a poetessa, a leader di una rock'n'roll band, a mito: il passo è lungo e intenso, dura una vita.
Robert Mapplethorpe, Patti Smith's Horses cover, 1975 |
ROCK'N'ROLL, I LOVE YOU.
Ad un certo punto, agli inizi degli anni Settanta, Patti scrive: "Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono".
Arrivare a questa decisione fu piuttosto tortuoso. Per lungo tempo Patti si mosse tra il CBGB - era il posto dove trovavano uno spazio per esibirsi tutti gli artisti non ancora celebrati - ed altri locali al confine tra poesia, recitazione, performance, fino ad abbracciare definitivamente come linguaggio d'espressione il rock'n'roll con la sua band al completo.
Non era ancora il tempo del punk del '77, e tantomeno dell'ondata new wave di inizio anni 80, eppure Patti stava facendo qualcosa di molto diverso dalla generazione che l'aveva preceduta e stava gettando semi verso il futuro.
Aveva ringraziato Jim Morrison per averle indicato la via, quella di fondere la poesia col rock'n'roll.
Bob Dylan, che era stato il suo più grande ispiratore, era presente a quel famoso concerto del '75 all'Other End considerato un po' la sua vera iniziazione, "la notte in cui io divenni me stessa".
Robert, per la fiducia incrollabile.
E tutti i suoi santi, da Rimbaud in poi.
P.s. Sinceramente ora che c'è la notizia della serie TV sto lì a immaginarmi che questa cosa renda popolare il mio adorato Robert Mapplethorpe almeno tanto quanto i tizi col ciuffo ai tempi di Beverly Hills 90210 negli anni Novanta. E poi spero che qualcuno si prodighi per farne un film interpretato da qualche premio Oscar. Io me l'aspetto eh. [Dai. Va bene anche James Franco].